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Gaza, la finestra stretta

Introduzione Questo non è un pezzo “di geopolitica”. È il tentativo di dire, da filosofo e cittadino, che ci sono momenti in cui il pensiero deve smettere di girare in tondo e diventare linguaggio di protezione. A Gaza il lessico del diritto — cessate il fuoco, tutela dei civili, responsabilità individuale — non è un tecnicismo: è l’unico modo onesto di nominare il dolore. Qui spiego perché oggi pubblico qui, sotto quest’albero: perché la filosofia non è neutrale davanti a ciò che somiglia a un genocidio secondo i parametri del diritto internazionale e le sedi giudiziarie in corso. Non prendo la parola “contro” qualcuno, ma per la vita di tutti: palestinesi ed ebrei, ostaggi e civili. Le parole servono se aprono passaggi: questo testo prova a indicarne alcuni, subito. C’è un momento, in ogni guerra, in cui le parole provano a tirare il fiato alla storia. Gaza è arrivata a quel punto e, al tempo stesso, non ci è arrivata affatto. Sul terreno, i droni non smettono di disegnare traiettorie, gli ospedali lavorano a luce intermittente, le scuole sono rifugi precari, il nord resta un lessico di fame più che una geografia. E tuttavia, in questo rumore di fondo, è comparsa una proposta che pretende di fermare il tempo: un piano statunitense — cucito insieme da Trump con il via libera politico di Netanyahu — che chiede alle parti di fermarsi, scambiarsi ostaggi e prigionieri, arretrare a fasi, immaginare una ricostruzione e, soprattutto, mettere Hamas fuori dalla stanza dove si deciderà il futuro di Gaza.

Il piano, al netto delle varianti giornalistiche (20 o 21 punti), ha una grammatica leggibile. Un cessate il fuoco immediato, verificato; entro poche decine di ore la riconsegna di tutti gli ostaggi — vivi e deceduti — in cambio della liberazione a scaglioni di migliaia di detenuti palestinesi, inclusi ergastolani. L’esercito israeliano arretra per gradini successivi mentre squadre tecniche smantellano infrastrutture militari e officine. La governance transitoria non è politica ma amministrativa: un comitato palestinese sotto una supervisione internazionale dal profilo spiccatamente americano, con l’idea — controversa — di un “Board of Peace” guidato personalmente da Trump e l’evocazione di consulenti occidentali. Hamas, per definizione, resta fuori: a chi depone le armi è promesso un salvacondotto o una forma di amnistia individuale; a chi non lo fa, la minaccia di restare sotto la lente militare. In filigrana, l’ipotesi di un domani: non lo Stato palestinese come immediata destinazione, ma come orizzonte condizionato a riforme della stessa Autorità Palestinese, che Netanyahu nel frattempo continua a rifiutare come garante del dopoguerra a Gaza.

Su questo canovaccio è calata la retorica dell’ultimatum. “Tre o quattro giorni, poi l’inferno.” Le frasi servono a spingere, ma possono anche spezzare. Gli ultimatum funzionano quando fissano un punto focale condiviso; falliscono quando umiliano l’interlocutore, lo consegnano ai suoi falchi e trasformano una trattativa in un test di virilità. Se per Hamas l’alternativa è tra scomparire come soggetto politico o accettare un disarmo senza garanzie robuste, è facile immaginare che prevalga l’istinto di sopravvivenza. Se per il governo israeliano l’alternativa è tra concessioni visibili e la caduta della coalizione, la flessibilità si azzera. Eppure, proprio mentre la finestra sembra chiudersi, è lì che la politica deve tentare di entrare.

La domanda utile non è “quanto è perfetto il piano?”, ma “quanta realtà riesce a inghiottire?”. Ogni proposta di tregua, per non marcire, ha bisogno di quattro cose: una sequenza chiara (chi fa cosa e quando), una verifica credibile (chi certifica e con quali strumenti), benefici reversibili (se sgarri, si torna indietro) e un minimo di dignità concessa a ciascuno, quel tanto che basta per vendere l’accordo a casa propria. Nella versione attuale, la sequenza c’è sulla carta, la verifica è evocata ma poco definita, la reversibilità è promessa in modo assertivo, la dignità è il pezzo più fragile: come si esce dalla logica del “tutto o niente” senza far percepire all’altra parte che sta perdendo la guerra in diretta? È qui che si gioca l’intero equilibrio.

C’è poi la geografia morale del dopoguerra. Un territorio prosciugato d’acqua, di lavoro, di scuole e di ospedali non è una “fase transitoria”: è un incubatore di rancore. Se la governance tecnica diventa una gestione di condominio senza mandato politico, se gli aiuti arrivano a singhiozzo, se la prospettiva resta sospesa — né Stato né autonomia reale, una sospensione a tempo indeterminato —, allora anche il miglior cessate il fuoco si consumerà come una tregua tattica. E la tregua tattica è il modo più rapido di tornare alla guerra.

Gli scenari immediati, diciamolo senza giri di parole, sono tre. Il primo è l’accordo “com’è”: Hamas ingoia il rospo, libera tutti gli ostaggi entro poche decine di ore, accetta una forma di esilio o smobilitazione per i quadri, e la macchina si mette in moto. Possibile? Non impossibile, ma fragile: basterebbe un singolo incidente — un convoglio che non passa, una cellula che spara — per spezzare la fiducia appena costruita. Il secondo scenario, più realistico, è una tregua rimodellata: stessi pilastri, tempi distesi, scambi a tranche, verifiche ibride con una regia tecnica più credibile (USA in chiaro, europei e arabi a fare da ossatura), e un lessico pubblico meno muscolare, che lasci spazio a correzioni di rotta senza costare la faccia ai leader. Il terzo è lo stallo: Hamas dice no, o dice sì e poi frena sui dettagli; Israele alza la pressione; gli ostaggi tornano merce di ricatto e il tavolo si capovolge. In questo terzo scenario, come sempre, i primi a pagare sono i civili.

Nel medio periodo, anche il miglior accordo sarà una diga piena di crepe se non si affrontano tre nodi. Primo: chi governa Gaza e con quali entrate, funzionari, contratti, scuole, medici, polizia? La parola “transitoria” diventa un trucco linguistico se non è accompagnata da tempi certi e tappe verificabili. Secondo: come si gestisce la sicurezza senza scivolare nella punizione collettiva? L’unico modo è scrivere, nero su bianco, un meccanismo “tappa‑verifica‑beneficio‑snapback”: a una consegna di ostaggi deve corrispondere una pausa definita in aree mappate; a ogni violazione certificata deve corrispondere il ritorno automatico a posture più dure, senza ambiguità. Terzo: quale prospettiva politica si offre ai palestinesi che non sia solo la promessa di un domani indefinito? Se la risposta continua a essere “non ora”, la frattura si allarga.

Infine il lungo periodo, quello che riguarda noi. Le guerre non finiscono nei confini in cui sono cominciate; finiscono nei notiziari, nelle chat, nelle urne. Un conflitto lasciato sedimentare produce due effetti gemelli: l’idea, da una parte, che la forza paghi; dall’altra, che la disperazione sia un’argomentazione. Tradotto: proliferazione di sigle jihadiste in cerca di bandiera e di donatori, reti di reclutamento che usano immagini e slogan come leva, polarizzazione nelle città europee, attacchi ispirati, mimesi violente e, contemporaneamente, antisemitismo e islamofobia che risalgono la superficie pubblica. Non serve allarmismo, serve lucidità: la miglior politica antiterrorismo è togliere ossigeno alla narrativa che lo alimenta. Questo significa meno ultimatum a microfono aperto e più garanzie verificabili; meno scenografie e più logistica; meno promesse assolute e più tappe oneste.

Qualcuno obietterà che non si può dare nulla a chi spara. È vero: i diritti non si barattano e i crimini vanno perseguiti, individualmente, dovunque si commettano. Ma una trattativa non è un premio, è un ponte provvisorio sopra un fiume in piena. Oggi quel ponte — imperfetto, pericolante, esposto ai colpi — è comunque preferibile all’idea che la corrente si porti via tutto. Perché la storia ci insegna che la corrente non porta mai via solo “gli altri”. Ci riguarda sempre, più vicino di quanto vorremmo.

Il punto non è credere o meno al piano di giornata; il punto è pretendere che ogni piano, qualunque sia il governo che lo firma, risponda a questa domanda elementare: domani, chi potrà andare a scuola? Chi avrà una medicina? Chi potrà tornare a casa senza temere un drone? Se a queste domande non sappiamo dare una risposta, allora possiamo pure cambiare il nome del piano — tregua, cessate il fuoco, road map, Board of Peace — ma non avremo cambiato la sostanza. E la sostanza, oggi, è una: fermare il sangue, aprire la strada agli ostaggi, dare aria agli aiuti, e costruire, senza grandiose illusioni, gli argini minimi contro la prossima piena. Nota editoriale

Questo articolo impiega il termine “genocidio” in riferimento alla definizione della Convenzione ONU del 1948 e ai procedimenti internazionali in corso; condanna senza ambiguità antisemitismo e islamofobia. Le responsabilità descritte sono individuali (capi politici e militari), non collettive.

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