Lo sguardo dell'altro e il riconoscimento: chi sono quando tu mi guardi?
- sottolalberodifico
- 25 lug
- Tempo di lettura: 4 min
Introduzione Ti è mai capitato di sentirti esistere soltanto quando qualcuno ti ha guardato davvero? Non uno sguardo distratto, non uno sguardo curioso. Uno sguardo che ti ha colto. Che ti ha trafitto o accarezzato. Uno sguardo che ti ha detto: "Ti vedo". E che, nel farlo, ha cambiato il modo in cui tu stesso ti percepivi.
Nel precedente articolo abbiamo parlato del malocchio come metafora della vulnerabilità umana, di quel potere oscuro che attribuiamo allo sguardo altrui, capace di influenzare la nostra vita, persino di danneggiarla. Continuiamo qui la nostra esplorazione di questo tema fondamentale: lo sguardo. Cosa significa essere visti? E cosa accade quando ci sentiamo esposti allo sguardo dell'altro?
Lo sguardo è più di un atto visivo: è una forza che ci attraversa, che ci modella, che può tanto costruire quanto distruggere. Può generare vergogna, desiderio, paura, riconoscimento. Può accompagnarci o tradirci. Può ferire. Può addirittura uccidere: basti pensare al film Peeping Tom di Michael Powell, in cui la macchina da presa diventa letteralmente un'arma di morte.
In questa riflessione, proviamo a esplorare la tensione e la complessità dello sguardo attraverso un percorso che va dal cinema alla filosofia, da Hitchcock a Sartre, da Lacan a Cavell.
Hitchcock: voyeur ed esibizionista, il teatro dello sguardo
Il regista Alfred Hitchcock, maestro del cinema e dell’ambiguità, sosteneva che il mondo si divide tra chi guarda (i voyeur) e chi è guardato (gli esibizionisti). Ma non si tratta solo di una distinzione cinematografica o erotica. È una struttura fondamentale della nostra condizione esistenziale: cerchiamo di osservare senza essere visti, e al tempo stesso desideriamo essere visti, riconosciuti, confermati.
Nel film La finestra sul cortile, ad esempio, lo spettatore diventa parte integrante della trama: osserva chi osserva. Il piacere di guardare è anche una forma di controllo, di possesso, ma implica un rischio: che lo sguardo torni indietro, che l’altro ci scopra mentre lo stiamo guardando. Così, anche chi guarda diventa vulnerabile.
Sartre: lo sguardo come condanna all'oggettività
Jean-Paul Sartre, in L'essere e il nulla, approfondisce questa dinamica rendendola ancora più radicale. Quando l’altro mi guarda, mi sottrae a me stesso: io non sono più soggetto libero e cosciente, ma oggetto per la coscienza altrui. Lo sguardo dell’altro mi cattura, mi definisce, mi imprigiona in un ruolo.
E se scelgo io di espormi? Se decido consapevolmente di farmi guardare? Anche in questo caso, per Sartre, cedo momentaneamente la mia libertà. L’esibizionista, anche consenziente, accetta di diventare immagine, spettacolo, oggetto: usa la propria libertà per sospenderla. È un atto limite, in cui la coscienza si gioca sul bordo dell’alienazione.
Lacan: il desiderio di essere visti e la ferita dell'immagine
Jacques Lacan, da psicoanalista e filosofo, approfondisce il legame tra lo sguardo e il desiderio. Lo sguardo, dice, non è mai neutro: è sempre legato al desiderio, e in particolare al desiderio dell'altro. Fin dalla nostra infanzia impariamo a riconoscerci attraverso l'immagine nello specchio — un'immagine esterna, idealizzata, che non coincide mai davvero con ciò che siamo.
Lacan introduce l’idea dello sguardo come oggetto a: qualcosa che desideriamo, ma che non possiamo mai possedere interamente. Lo sguardo dell’altro ci promette riconoscimento, ma ci lascia spesso con un senso di mancanza. L’esibizionismo diventa così una strategia per ottenere uno sguardo che ci confermi, mentre il voyeurismo è un tentativo di possedere ciò che ci sfugge.
In entrambi i casi, siamo intrappolati in una dinamica che ci aliena: cerchiamo uno sguardo che ci veda davvero, ma ciò che otteniamo è sempre solo una maschera, un riflesso parziale, un frammento.
Cavell: il riconoscimento come atto etico e possibilità di salvezza
Stanley Cavell, filosofo americano, riapre lo spazio dello sguardo come possibilità umana autentica. Per lui, l’essenza del riconoscimento non sta nel possesso o nel controllo, ma nella disponibilità a vedere l’altro per ciò che è, nella sua fragilità, nella sua opacità, nel suo essere irriducibile.
A differenza di Sartre e Lacan, Cavell crede che sia possibile uno sguardo che non riduca, che non inganni, ma che riconosca. Un riconoscimento che è sempre fragile, mai garantito, ma profondamente umano. È il cuore delle sue interpretazioni di Shakespeare (come in Otello) e delle commedie hollywoodiane del rimatrimonio: solo quando i personaggi riescono a vedersi davvero — al di là del ruolo, del desiderio, della maschera — può nascere una relazione autentica.
Consulenza filosofica: riconoscere e riconoscersi
Nel percorso di consulenza filosofica, lo sguardo è centrale. Non quello giudicante, ma quello che accompagna. Aiutare qualcuno a riconoscere ciò che sente, ciò che teme, ciò che desidera. A interrogarsi su come si è lasciato definire dagli sguardi ricevuti e su come possa imparare a guardarsi diversamente.
Spesso non è lo sguardo dell'altro a ferirci, ma il modo in cui lo abbiamo interiorizzato. Possiamo imparare a distinguerlo, a lasciarlo andare, a scegliere quali sguardi abitare.
Conclusione
Lo sguardo può ferire o salvare. Può ridurre o liberare. Hitchcock ce ne mostra il gioco teatrale e ambivalente, Sartre ci ricorda la sua potenza alienante, Lacan la sua ferita desiderante. Ma Cavell apre uno spiraglio: lo sguardo può anche essere promessa, riconoscimento, ascolto.
Sotto l'albero di fico, proviamo a fare proprio questo: aprire uno spazio dove lo sguardo sia presenza e non giudizio. Per imparare, poco a poco, a essere visti senza paura. E, forse, a vedere noi stessi con occhi nuovi.




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